
La storia ci insegna che il popolo non transige su due questioni fondamentali: il pane e la libertà di pensiero. In tal senso possiamo trovare un’interessante connessione tra gli avvenimenti di queste settimane che stanno facendo tremare il Maghreb africano e alcuni aspetti delle imprese risorgimentali italiane di metà e fine ottocento, che portarono all’unificazione italiana.
In entrambi i casi è possibile studiare come i moti di ribellione e rivoluzione siano scatenati da una situazione economica sfavorevole, dal carovita imperante e dal forte tasso di disoccupazione. In Tunisia si è parlato di “rivolta del pane”, esattamente come in Italia si parlò di prime agitazioni sociali su scala nazionale, nel 1869, a seguito dell’introduzione della tassa sul macinato, varata a pochi anni dall’unificazione per far fronte alle ingenti spese del nuovo regno. Si parlò, specie nelle campagne padane, di ribellioni violentissime represse nel sangue. Il problema era rappresentato dal fatto che la tassa colpiva le classi sociali più basse, che di solo pane si nutrivano. In quel periodo la popolazione dedita all’agricoltura rappresentava più della metà del numero totale (22 milioni di abitanti, esclusi Veneto e Lazio, non ancora annessi) e l’economia agricola stentava a decollare. La legge fu abolita soltanto nel 1884, dopo essere stata notevolmente ridotta nell’ ’80.
Altra legge, sull'aumento dei prezzi di grano e olio: a Sidi Bouzid, in Tunisia, a gennaio di quest'anno un venditore ambulante si dà fuoco, un muratore disoccupato si impicca. Il mese precedente il popolo dà fuoco a una banca e a diversi edifici pubblici, mentre la guardia nazionale reagisce sparando colpi in aria. Il culmine della crisi economica e sociale, della situazione di disoccupazione e povertà.
E’ il “bottom wind” africano, che attraversa tutto il nord africa e depone, uno ad uno, i tiranni locali. Ben Alì è fuggito all’estero e Mubarak non è più presidente dell’Egitto. In questi giorni, Muammar Gheddafi è asserragliato a Tripoli.
Ai telegiornali si sente che in tutti questi casi una delle prime mosse da parte degli uomini di potere è stata quella di togliere la possibilità alle persone di comunicare tra loro a distanza, oscurando le reti internet e cellulari. E’ stato un gesto inedito ma ricco di significato: con l’avvento della rete, “the net”, organizzarsi e organizzare le rivolte, informare e informarsi, capire e prendere posizioni è molto più facile. Per questo la popolazione è stata immediatamente privata di questa possibilità dalle rispettive “sale dei bottoni” dei governi. Una situazione innovativa, quella di Internet, che ha avuto il suo riconoscimento con la scelta di eleggere a uomo dell’anno 2010 proprio il ventiseienne statunitense Mark Zuckerberg da parte del magazine settimanale Time. La motivazione è chiara: Zuckerberg è “the Connector”, il collegatore. Grazie a Facebook gli individui condividono volontariamente le informazioni e questo dà loro l’idea di avere più potere (questa scelta ha escluso Julian Assange dalla competizione, che con Wikileaks, secondo le motivazioni del magazine, ha come finalità il depotenziamento delle grandi istituzioni attraverso una trasparenza involontaria).
Oscurando le comunicazioni i governi non solo non hanno ottenuto gli obiettivi sperati ma hanno dovuto capitolare di fronte alle rivolte già partite per le strade e nelle piazze.
La volontà di limitare la circolazione di idee, o quantomeno di controllarle, non è nuova alla penisola italiana, che sotto lo stretto controllo da parte dell’Austria vedeva soffocato, a soli dieci anni dall’inizio della sua diffusione (500 abbonati), il periodico mensile “L’Antologia”. Questa rivista sviluppò una serie di progetti educativi e tentò la collaborazione con il governo. Era il 1831 quando Leopoldo II, Granduca di Toscana, sotto pressione austriaca, impose la chiusura del mensile. La lamentela si elevò puntuale, nel 1835, da un opuscolo in lingua francese dal titolo “Fede e avvenire”. A scrivere era un fervente Giuseppe Mazzini, a carattere più generale: “La stampa? I Governi la uccidono: avete per ogni dove leggi che incatenano, censori che tormentano lo scrittore, giudici che condannano e chiudono il pensiero in una prigione. [...] Ma ponete una paese privo assolutamente di stampa, senza Parlamento o Consigli che discutano, senza giornali letterari, senza teatro nazionale, senza insegnamento popolare, senza libri stranieri. Ponete che quel paese soffra, soffra tremendamente, nelle sue moltitudini come nelle classi agiate, di miseria, d’oppressione straniera e domestica, di violazioni continue del suo principio nazionale, d’assenza di ogni sviluppo intellettuale e industriale. Che farà mai quel paese? [...] L'insurrezione, io non vedo, per quei popoli, altro consiglio possibile”.
Pane e libertà di pensiero, appunto: alcune scintille dei fuochi rivoluzionari italiani del 1800 e di quelli africani del 2000.
Così, mentre ci accingiamo a celebrare la data che sancisce il secolo e mezzo da quegli eventi, saremo un po’ più consci che quello che si sta manifestando in Africa è forse il risorgimento del ventunesimo secolo.