giovedì 29 dicembre 2011

Antitrust vs Apple - Facciamo i conti

"Reato commesso da chi per mezzo di artifici o di raggiri induce una persona in errore allo scopo di procurare a sé o ad altri un illecito profitto con danno"

Questa è la definizione che si può leggere sul vocabolario italiano alla voce "truffa". Sicuramente è un termine forte, che evoca i peggiori scandali economici. 
Tutto cambia, invece, quando si parla di "pratiche commerciali scorrette", l'accento è chiaramente più lieve; così l'Antitrust si è espressa nei confronti del gruppo Apple (Apple Sales International, Apple Italia S.r.l. e Apple Retail Italia).

Ma procediamo con ordine.

Il 27 dicembre 2011, l'AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), rende pubblica, attraverso un comunicato apparso sul suo sito (reperibile qui), la notizia della sanzione di 900.000 euro, inflitta dall'Antitrust al gruppo Apple Italia.
Vengono contestate al gruppo della mela due pratiche commerciali:

- la prima riguarda "la mancata informazione, sia al momento dell’acquisto che al momento della richiesta di assistenza, ai consumatori sui diritti di assistenza gratuita biennale previsti dal Codice del Consumo, ostacolando l’esercizio degli stessi e limitandosi a riconoscere la garanzia convenzionale del produttore di 1 anno";
- la seconda è complementare e riferita "alla natura, contenuto e durata dell'informazioni sui servizi di assistenza aggiuntivi a pagamento AppleCare Protection Plan, che erano tali da indurre i consumatori a sottoscrivere un contratto aggiuntivo". 

L'accusa dell'Antitrust si può riassumere dicendo che Apple, non fornendo le adeguate spiegazioni sulla durata e sulla natura della garanzia dei prodotti, vendeva ai propri clienti la garanzia sugli stessi, già inclusa e gratuita. 

Sono accuse gravi, che senza un'adeguata esemplificazione numerica possono essere in qualche modo "snobbate". 

Vi prego di seguirmi in questo rapido calcolo.
Attraverso il sito store.apple.com si può notare come i prezzi relativi all'AppleCare Protection Plan (le cui caratteristiche sono riassunte qui) variano da prodotto a prodotto. Facendo una semplice media, si può affermare che il suo prezzo sia mediamente di 170 euro aggiuntivi.
Questo dato ci tornerà utile più avanti.
Secondo i dati ISTAT, aggiornati all'anno 2011, le famiglie possessori di un qualsiasi tipo di computer portatile sono il 58,8%, quindi circa 13 milioni di famiglie.
Di questi 13 milioni, StatCounter stima che il 7% utilizzi il sistema operativo MacOSX, e possieda quindi un computer Apple. La cifra si aggira indicativamente intorno alle 900.000 unità.
Ipotizziamo che, di queste 900.000 unità, il 30% (270.000) sia stato acquistato con annesso AppleCare Protection Plan con un costo medio di 170 euro (superflui, visto che la garanzia biennale avrebbe dovuto essere già presente e gratuita). 

La moltiplicazione è semplice, e la somma spaventosamente alta.

Quest'ultima cifra (a voi il piacere di fare l'ultimo, scioccante passaggio) è basata su ipotesi di calcolo, ottenute dai dati ricavati da diverse fonti, ma viste le accuse mosse dall'Antitrust, si potrebbe rivelare decisamente plausibile.

Dopo esserci occupati la settimana scorsa della situazione Trenitalia, anche Apple offre spunti per una discutibile gestione commerciale del proprio brand, in un mercato che, come ci insegna la corrente crisi economica, basa i suoi principi sulla credibilità e sulla trasparenza.
In settori diversi e con proporzioni differenti, queste due aziende leader ci hanno dato il loro esempio. È questa la strada corretta da seguire?

venerdì 23 dicembre 2011

l'occupazione di Milano Centrale: "Il lavoro è la nostra dignità"


Storia di un'Italia che resiste e che esiste. Alla stazione di Milano Centrale, la notte, la temperatura scende sotto lo zero. Eppure da più di dieci giorni Carmine, Giuseppe e Oliviero, tre degli 800 lavoratori dell’indotto di Ferrovie dello Stato, sono su una torre faro e gridano attraverso gli striscioni che il loro lavoro è la loro dignità e la loro vita. Con loro, sotto alla torre, si sono organizzati i colleghi e le famiglie. Gli stessi colleghi che hanno occupato, sotto l’immensa tettoia grigia che ripara i convogli che arrivano e partono, un ufficio dentro al quale non può accedervi nessuno. Fuori dalla porta, davanti al binario 21, raccolgono le firme per una petizione che chiede la restituzione delle Ferrovie dello Stato all’Italia. Perché di questo, ci dicono, si tratta: nuove strategie di viaggio. “Le Fs hanno un cuore pubblico, ma una mente sempre più privata” ci spiega Domenico, di presidio all’ufficio. “L’Italia è spezzata in tanti segmenti ora. I treni a lunga percorrenza, quelli che viaggiano di giorno e di notte dal Sud al Nord, non esistono più. Ora investono solo sull’alta velocità, sulle Frecciarossa e Frecciargento. È una vera imposizione: i passeggeri sono costretti a dover usufruire dell’Alta Velocità in modo da mantenere un mercato che possa fare concorrenza al nuovo servizio Ntv. Il problema è che l’Alta Velocità è molto più costosa, e il treno diventa un mezzo di trasporto elitario”. Ma la cosa che fa arrabbiare Domenico è che Ferrovie dello Stato è un servizio pubblico, finanziato con le tasse di tutti i cittadini. “Inizialmente il boicottaggio era fatto di gesti: alla biglietteria non ti facevano il biglietto, sui nostri palmare di bordo risultavano posti letto che in realtà non esistevano, perché avevano tolto le carrozze. Ora hanno tolto definitivamente anche noi”. Per la petizione ci fanno sapere che hanno raccolto già 4500 firme. I passeggeri che scendono dai vagoni si fermano e manifestano la loro solidarietà. “Anche se non tutti capiscono il motivo della nostra occupazione. L’altro giorno è passato un viaggiatore e ci ha risposto: ‘Sono di Firenze, non mi interessa’. E tu ti chiedi: ma dove vive? Non è forse Firenze una città d’Italia?”. Mentre parliamo ci indicano una signora. È cieca e per questo accompagnata. Ci dicono che è a Milano per una visita al San Raffaele e viene dalla Puglia. Ha dovuto spendere 90 € per il biglietto, perché i più convenienti treni notte per Milano non esistono più. Arrivano le famiglie che ci accompagnano alla torre occupata, attraverso i binari che si snodano all’infinito. La brina ha intaccato tutte le assi di legno dei binari morti. Giorgia lavorava sulla percorrenza Milano-Roma. È separata e ha un figlio, che riusciva a mantenere con il suo stipendio. Ora che è stata licenziata dovrà affidare il bambino al padre. “È cresciuto così in fretta. Quest’anno ha cominciato la prima elementare e va molto bene a scuola. Ha capito perfettamente la nostra situazione, la mancanza di certezze. È lui a darmi la forza”. Quando arriviamo sotto alla torre, ai nostri occhi si presenta l’immagine di una piccola comunità organizzata. Hanno allestito una cucina da campo, sono estremamente gioviali, ci offrono il caffè. Trasmettono grinta e determinazione fin dai gesti. Silvia, che conosce bene Giuseppe, lo chiama da trenta metri più in basso e lui, al telefono, risponde. Hanno un lungo dialogo, lei guarda su e lui guarda giù. I suoi occhi si fanno lucidi mentre sorride con il cellulare all’orecchio. “Questa occupazione ci costa molto, fisicamente e moralmente. Ma questo non è solo il nostro lavoro, è anche la nostra dignità”. Per molti dipendenti, questo stipendio rappresentava l’unica fonte di mantenimento per le rispettive famiglie. Il loro lavoro è la loro vita. Tutte le riunioni per trovare accordi sono andate a vuoto, e così l’occupazione continua. Finché sarà necessario. Silvia è molto chiara. “Scenderanno dalla torre solo quando qualcuno salirà là in alto e gli farà vedere un documento scritto sul quale si dica che ci ridanno il nostro lavoro”. Arriva la moglie di Carmine, è grintosa, urla il nome di suo marito che fa capolino dalla torre e la saluta. Poi si rivolge ai presenti, scherza con loro, tiene alto il morale. È una forza. Una ragazza si avvicina e ci dice: “Uno dei nostri compiti era l’assistenza sul treno ai malati. C’è anche un’area politica a cui fa piacere che ora il Nord e il Sud Italia non siano più uniti da un servizio ferroviario conveniente. C’è chi non vuole che le persone del Sud vengano a curarsi qui, negli ospedali del Nord”. I convogli arrivano e i macchinisti suonano a lungo e a intermittenza la sirena. “Sono con noi”. Mentre li ringrazi e li saluti, ti stringono la mano e ti dicono: “Auguri!”. Buona fortuna a voi.

#OccupyFs - Le ragioni della protesta


Per un esempio di corretta gestione aziendale, prego rivolgersi a Trenitalia. 

Perché offrire ai propri clienti un sistema di trasporto notturno rapido, comodo e a basso costo? Meglio concentrare gli sforzi societari sull’alta velocità, la cui rete non collega interamente il Paese,  i cui prezzi sono notevolmente più elevati,  privando i passeggeri di una cabina letto e obbligandoli a effettuare due o più cambi.

Questa è la scelta strategica che ha adottato Trenitalia. Dall’11 dicembre infatti la società ha deciso di sopprimere i treni a lunga percorrenza per investire tutte le risorse sui collegamenti con il Frecciarossa. Una decisione sconsiderata in quanto, dati alla mano, i treni notte erano il sistema di trasporti più comodo e accessibile che unisse il Paese. Non si tratta, come in altri casi, di un ramo societario ormai morto, incapace di generare reddito. Il sistema di trasporti notturno (peraltro finanziato da soldi pubblici) ha un introito molto alto, sempre anticipato, e le spese non sono certo eccessive, visto che il personale è ridotto al minimo e gestito da ditte appaltatrici. 

Un paio di numeri che vi permetteranno di capire meglio la strategia utilizzata da Trenitalia:

-          Nel 2009 il Comitato Ministeriale per la Programmazione Economica, stanzia un budget di 330 milioni di euro, per il finanziamento del trasporto ferroviario di passeggeri a media e lunga percorrenza, per il triennio 2009-2011

-          Dal 2010, 209 vetture, completamente ristrutturate e rimodernate per un totale di 79 milioni, vengono accantonate e lasciate nei parchi ferroviari a disposizione dei barboni.

-          A marzo 2011 le vetture a disposizione per i servizi nazionali e internazionali in circolazione risultavano 249. Ora sono 136. Con la nuova gara d’appalto diventeranno 60.

-          Da inizio 2011 le biglietterie Trenitalia, a chi volesse comprare un biglietto con posto letto, rispondono che il treno è pieno, nonostante alla partenza i posti disponibili sono sempre più della metà.

-          Ora chi volesse compiere un viaggio notturno, dal sud al nord del Paese, è costretto a utilizzare il sistema di trasporti Frecciarossa, che collega solamente Torino, Milano, Firenze, Roma e Napoli, dovendo per forza compiere numerosi cambi, e pagando un biglietto di mediamente 150 euro, laddove prima ne spendeva 60.

-          L’11 dicembre 2011 le imprese titolari dell’appalto licenziano circa 800 lavoratori dell’accompagnamento notte, mentre Trenitalia non ha ancora deciso a chi dare l’affidamento dei servizi di accoglienza sui treni notte.

Carmine Rotatore, Giuseppe Gison e Oliviero Cassini sono tra questi 800 lavoratori. Loro non ci stanno a fare da comparse in questa manovra adottata dall’amministrazione Trenitalia, in collaborazione con Ferrovie dello Stato. In una lettera si sono visti del tutto privati della dignità, già minata in anni di incertezza lavorativa, e della paga che gli permetteva, con grossi sacrifici, di mantenere le proprie famiglie.

Da 13 notti si sono accampati a 30 metri d’altezza, sulla torre dell’alta tensione al binario 21 della Stazione Centrale di Milano; anche lavoratori di Roma e Torino hanno seguito il loro esempio, mettendo in piedi quello che si può definire un atto di eroica (R)esistenza. Non scenderanno dalla torre finché non avranno la certezza che Trenitalia gli garantisca un posto di lavoro, reintroducendo il servizio di treni notte, o dislocandoli in una delle molteplici società controllate dal gigante delle ferrovie.

Noi siamo stati in Stazione Centrale a Milano, e quello che vi possiamo testimoniare è che queste persone non si fermeranno, passeranno anche il Natale accampati come senza tetto, perché gli è stato negato il diritto fondamentale della ricerca della felicità, perseguibile attraverso il loro lavoro, senza il quale Trenitalia, non solo dimostra un’incapacità a fornire una crescita economica e professionale alle proprie risorse umane, ma smantella un servizio sociale, che i cittadini italiani si erano garantiti con i propri contributi.

domenica 4 dicembre 2011

Le lacrime del ministro

Le lacrime del ministro del Welfare Elsa Fornero non sono dovute all'emozione che si prova mentre si spiegano davanti a una platea di giornalisti e cameramen i contenuti della manovra per salvare l'Italia. Non solo. Dietro alla voce strozzata sulla parola "sacrificio", dietro alle lacrime di un ministro ma anche (non dimentichiamolo) di un essere umano, sta la consapevolezza piena delle conseguenze di tali azioni, di tali provvedimenti. Il presidente del Consiglio Mario Monti completa: "il venire meno dell'indicizzazione dell'inflazione per le pensioni, tuttavia salvaguardando le pensioni minime": ovvero, se l'inflazione crescerà, non cresceranno i valori delle pensioni di conseguenza, ma rimarranno a livelli fissi. E se i prezzi aumentano in maniera generale, ma con essi non aumenta l'ammontare di reddito, vuol dire che diminuisce il potere d'acquisto, e aumenta la povertà. È un sacrificio con la "s" maiuscola: lo Stato chiede maggiore povertà ad alcuni cittadini, li abbandona se vogliamo, con tutte le conseguenze possibili. La Fornero lo sa, e anche se le sue lacrime non aiuteranno, nei fatti, l'Italia, è da sottolineare che una tale consapevolezza non si vedeva da molto, negli occhi di un ministro italiano.

Tremonti reloaded

Ogni tanto è divertente (si fa per dire) andare a ripescare i vecchi documenti delle vicende politiche passate e rileggerle a distanza, a freddo, vedendo che effetto fa. Di recente ho riletto la lettera che Giulio Tremonti, al secolo ministro dell'Economia del quarto governo Berlusconi, inviò il 29 luglio scorso al Corriere della Sera. Scrisse una lettera perché era appena scoppiato il caso Milanese: braccio destro del ministro, suo collaboratore politico e parlamentare del Pdl, indagato per sporchi affari, condivideva con Tremonti un appartamento a Roma per il quale, tra l'altro,  l'ex ministro sborsava, ogni mese e a partire dal 2008, 4 mila euro in contanti e in nero.


La lettera è interessante perché è abbastanza comica. Per almeno due motivi: il primo - l'aspettativa (quasi sempre tradita, nel tempo) di un cittadino sull'abilità di un politico, almeno retorica, è alta, mentre qui è tradita subito; secondo - da un uomo con incarichi così importanti ci si aspetta molta serietà oltre che una buona dose di competenza nell'organizzazione di un settore così delicato come l'economia e la finanza. Perché di fatto ne era ministro e quindi era - in linea di massima - la persona migliore che potesse essere incaricata dal partito o comunque un buon "dipendente" (ministro = minus = inferiore, alle dipendenze di) del popolo che sapesse amministrare bene i conti. Nella lettera spiega:


Ho commesso illeciti? Per quanto mi riguarda, sicuramente no. Ho fatto errori? Sì, certamente. In primo luogo, se qualcosa posso rimproverarmi, vi è il fatto di non aver lasciato prima l'immobile. L'ho fatto in buona fede. [...]. Come scusante rispetto a quelli che Sergio Romano (giornalista del Corriere, ndr) definisce un "errore di giudizio" od un "peccato di distrazione", posso solo portare l'impegno durissimo in questi anni non facili, su tanti fronti. 


Ma davvero non ha commesso illeciti? In teoria no, cioè sì, li ha commessi: l'articolo 1 comma 346 della Finanziaria 2005 prevede l'obbligo di registrazione di tutti i contratti di locazione nonché dei contratti di godimento; È poi divertente (ma si fa sempre per dire) leggere che un ministro attribuisca la causa dei suoi errori alla "buona fede" e al fatto che, poiché questi anni sono difficili, dedica un durissimo impegno su tanti fronti. Un errore può scappare, insomma, nessuno è perfetto: tra l'altro siamo italiani. Perfetti no, certo, ma a rischio default sì.

giovedì 1 dicembre 2011

Piazza Tahrir 2

La primavera araba sta per giungere al suo primo anniversario di vita: erano i primi mesi dell'anno a finire e nel Nord Africa si scatenava la protesta dei popoli del Maghreb. In questi giorni l'Egitto si vede proiettato al voto, e dopo tanti anni il popolo egiziano ha la possibilità di esprimere la propria preferenza politica. Nei giorni scorsi, tuttavia, lo scenario che si presentava ai nostri occhi non è risultato pacifico: il sangue scorreva ancora e tristi immagini ci giungevano dalle telecamere di Piazza Tahrir. Ho potuto raggiungere ancora Ahmed, che già intervistai a febbraio. Gli ho chiesto di definirmi in un soffio la situazione.
Ciao Ahmed, stiamo assistendo in questi giorni a scene terribili in Egitto e Piazza Tahrir si dimostra ancora come un luogo di protesta e repressione sanguinosa. Perché?
La Giunta Militare ha annunciato di aderire ai principi da approvare in costituzione da parte dell'Assemblea Popolare. Il significato di questi principi è chiaro: l'esercito ha la più alta autorità nel paese.
Cosa sta accadendo?
Le persone si sono sentite tradite e hanno deciso di uscire per esprimere il loro dissenso riguardo l'approvazione del documento. Sono rimaste tristemente sorprese dal fatto che l'esercito uccida la gente, come accadeva con il precedente governo.
Cosa pensi che possa accadere nei prossimi giorni?
Questa vicenda si ripercuoterà su tutti i partiti politici e su tutte le sezioni del popolo.

sabato 12 novembre 2011

Punto. A capo?

Questa notte verrà ricordata come la notte dei sospiri di sollievo. Le immagini della folla radunata davanti al Quirinale ci descrivono un'Italia che ha bisogno di festeggiare la fine di un'epoca. Ha la necessità di imprimere il punto, di sottolineare la fine di una fase e di sperare di poter tornare a rivedere le stelle. Ma la notte è solo una notte e domani verrà un nuovo giorno. E oggi come ieri le macerie saranno ancora per strada. I poveri continueranno a ritirare i pacchi alimentari, i precari e i giovani continueranno a lottare per la ricerca di un lavoro, gli operai continueranno a essere licenziati. Non è una favola quella di cui si sta raccontando il finale. E allora sono essenzialmente due le cose che gli italiani possono sperare e fare: in primo luogo, sperare che il nuovo governo tecnico, guidato con buona probabilità da Mario Monti, tenga come punto di riferimento il benessere della somma di ogni singolo cittadino, ovvero del paese, e lo faccia con l'ispirazione delle migliori idee; in secondo luogo, fare sì che d'ora in poi possa sempre essere il meglio, e non la mediocrità, a prendere l'incarico delle funzioni di governo. Fare sì che il dibattito politico e sociale si incentri sulle idee che cambieranno il paese e costruiranno il futuro. Fare in modo di eleggere governi dalle idee valide e condivise dagli elettori, che possano arrivare con serietà a fine mandato. Rirendere possesso, informati, della parola e della costruzione di un paese migliore. Lasciando le "uscite dal retro" a chi, da protagonista, si è rivelato incompetente.

venerdì 12 agosto 2011

David Cameron: "Impedire di comunicare tramite questi siti internet"

Foto di Wired.it
È possibile che l'Inghilterra, un governo democratico repubblicano de facto (monarchia parlamentare), possa mettere in discussione la libertà del web nel 2011? Stando alle dichiarazioni del Primo Ministro David Cameron, pare di sì. L'11 agosto alla Camera dei Comuni effettua uno statement in merito ai disordini della nazione e si sofferma sul ruolo dei social media. "La libera circolazione d’informazioni può essere usata per scopi benefici. Ma può anche essere usata per cattive azioni. E quando le persone usano i social media per scatenare la violenza, dobbiamo fermarli. Perciò stiamo lavorando con la polizia, i servizi d’intelligence e le aziende per capire se possa essere giusto impedire alle persone di comunicare tramite questi siti internet e questi servizi quando sappiamo che stanno organizzando violenza, disordine e atti criminali".
La dichiarazione lascia un po' perplessi, perché ha a che vedere con uno dei fondamentali diritti civili delle persone: quello della libertà di espressione.
Non è originale la volontà dei governi di bloccare l'utilizzo dei mezzi di comunicazione in caso di disordine. Anzi, quella di David Cameron sembra una brutta copia di quant’è successo nei primi mesi di quest'anno nel Maghreb, quando i regimi dittatoriali interruppero le comunicazioni telefoniche e tramite web. In effetti il blocco di tali servizi può creare un pericoloso precedente. Può essere davvero una prerogativa del governo quella di controllare e impedire la libera circolazione di idee? Un'altra domanda, poi, più tecnica.
È davvero possibile bloccare parzialmente un sito come Twitter? E ancora: com’è possibile bloccare le persone di cui si è sicuri che stanno utilizzando tali siti per creare violenze, disordini o atti criminali? Sulla base di quali prove empiriche? Chi sarà a controllare i post e i profili dei presunti criminali? E chi controllerà i controllori? Queste ultime domande se le pone Jim Killock, direttore esecutivo dell'Open Rights Group, dalle pagine del Guardian. "Come si può decidere se una persona sta pianificando di creare dei disordini?". E proprio su Twitter Graham Linehan, irlandese e uomo della tv, lancia una frecciata a David Cameron, scrivendo: “Se la Big Society esiste per cose come il mettere in ordine quello che i riottosi hanno distrutto, ricordatevi che non è grazie a Cameron, è grazie a Internet”. Il riferimento chiaro è al fenomeno che ha susseguito il passaggio delle rivolte: i cittadini si sono dati appuntamento tramite Twitter per organizzare la pulizia delle città.
Già, la Big Society. La community che interagisce grazie al web. Quella stessa comunità che, secondo Russel Brand, è stata sempre negata a queste giovani persone che ora rivoltano. "Liquidarli come stupidi è futile retorica. Dobbiamo chiederci perché stanno accadendo queste cose. Queste persone non hanno senso della comunità perché non ne hanno mai avuta una". E quindi trovano rifugio tra le gang e nella rete. Ma una cosa è certa, e Martin Kettle avverte, sempre dal Guardian: "Dobbiamo parlare ai rioters, non voltargli le spalle".
Chiudere le porte della comunicazione, tentare di riportare l'ordine impartendo il silenzio senza favorire il dialogo non appare una buona soluzione, e la storia, anche recente, ci porta insegnamento in merito. I dittatori che non hanno dialogato con i cittadini e hanno privato della possibilità di comunicare in maniera libera sono caduti. E soprattutto, la volontà di bloccare la Rete da parte di una potenza occidentale è una novità che mette davvero a rischio la libertà della Rete stessa. Quella Rete, bella perché libera.
L'Inghilterra non deve tornare indietro di tre secoli, al 1694, quando la pubblicazione dei testi veniva consentita solo tramite la bolla di una licenza rilasciata dal governo. E soprattutto, l'Europa non deve cadere nell'errore delle dittature africane. Non possiamo permetterci, nel 2011, di mettere ancora in discussione la libertà del web.

giovedì 4 agosto 2011

Transparency, la politica inglese apre le porte ai cittadini

La sezione Transparency 
Transparency è l'area web che permette a tutti i cittadini inglesi di "tener d'occhio" i loro rappresentanti politici e i conti pubblici. Un gesto importante, che rinnova il rapporto di fiducia politici-cittadini. Sono quest'ultimi, infatti, ad aver delegato i primi affinché possano amministrare nel migliore dei modi la cosa pubblica. E ora possono essere controllati, come si dice in gergo, "H-ventiquattro".

Ti ci perdi dentro. È il servizio che tutti i cittadini attenti vorrebbero, o almeno dovrebbero volere, perché ha a che fare, in modo particolare, con i soldi che regolarmente versano per il funzionamento della macchina statale, le entrate fiscali. È made in England. Si accede dal sito internet ufficiale dell’English P.M. Office, che in lingua inglese vuol dire Uffico del Primo Ministro Britannico: www.number10.gov.uk. La sezione specifica del servizio si chiama transparency, “trasparenza”. È costituita da sei sezioni: Business Plans, Who Does What in Whitehall, Who Ministers are Meeting, Government Contracts in Full, How Your money is Spent e Find all Government Data. Si tratta di una finestra virtuale sempre aperta su Whitehall, l’arteria principale di Westminster che è anche sede di numerosi ministeri. Ed è infatti al centro dell’impegno di quest’amministrazione di governo -lo si legge nella descrizione della pagina- una maggiore trasparenza che permetta a tutti di “tenere il conto” dei politici e degli enti pubblici. Vediamo nel dettaglio di cosa si tratta.
La prima voce offre la possibilità di controllare lo stato di avanzamento dei lavori parlamentari, divisi per Departments e consultabili mese per mese. La seconda racchiude un impressionante volume di dati riguardanti chi fa che cosa nel governo inglese (e quanto viene pagato). Tra le informazioni, consultabili interattivamente mediante mappe navigabili, sono reperibili persino le email e i numeri telefonici di segretari e direttori di ogni ufficio. È possibile verificare chi sta alle dipendenze di chi; i responsabili, gli incarichi e le rispettive funzioni. La terza sezione è fenomenale. E’ possibile avere un resoconto dettagliato circa l’attività di tutti i ministri: incontri, ricevimenti, regali e viaggi oltreoceano. A gennaio 2011, ad esempio, David Cameron ha ricevuto in regalo dal Vice Premier della Cina un vaso, ora tenuto dal Dipartimento, il cui costo supera le 140 sterline. Non sono stati effettuati regali, invece, da parte del Primo Ministro tra gennaio e marzo 2011. Selezioniamo un incontro con il mondo giornalistico e l’editoria, tra i tanti: a maggio 2011, quello con Dominic Mohan, giornalista del Sun, per una discussione generale. O a luglio 2011, quando tocca a Fraser Nelson (uno “Spectator”), per un’intervista. Ma si può sapere persino dove fosse Cameron il 27 gennaio 2011: a Brentford. Il 14 dello stesso mese invece era a Newcastle. Insomma, i cittadini possono controllare le attività di tutti gli uomini del governo. Ma la sezione più interessante è la quarta, la più meritevole di attenzione da parte dei cittadini inglesi che pretendono di diritto di sapere come i loro “amministratori pubblici” gestiscono i loro soldi.  Prendiamo, ad esempio, i dati del Ministero della Difesa riguardanti il mese di gennaio: un centinaio di voci riguardano soltanto le specifiche spese di acquisto scorte e servizi. La stessa precisione e trasparenza vale per il Dipartimento per l’educazione, della Salute e tutti gli altri. Tutti i conti sono consultabili dai cittadini. L’ultima sezione permette di conoscere qualsiasi dato riguardante tutti i ministeri e i dipartimenti, compresi i servizi. 
Il fatto che tutti questi dati siano resi pubblici da parte del governo è una risposta non da poco, che denota serietà e lealtà nei confronti dei cittadini.
Questa politica di trasparenza è forse soltanto il frutto della tradizione delle buone maniere inglesi? È una cortesia che viene direttamente dal numero 10 di Downing street (che, ci tengono a sottolineare, consuma il 100% della sua energia da fonti rinnovabili)? No. È una rinnovata concezione del rapporto politica-cittadini. Il campo dei diritti di ogni persona si estende al controllo dei dati delle spese e delle attività che il proprio Stato produce. È un diritto, non un servizio facoltativo, una cortesia. Per una maggiore chiarezza dei conti. È l’esempio lampante della politica che apre le porte dei palazzi e dà il benvenuto ai visitatori.
Per ora è divertente perdersi dentro i tabulati inglesi e andare a snocciolare i precisissimi dati riguardanti ogni aspetto del funzionamento dello Stato, in attesa che anche i politici italiani rispondano in ugual modo ai concittadini che bussano alla loro porta.

sabato 18 giugno 2011

Anche in Italia è arrivata la primavera democratica










Il vento di democrazia, prima o poi, arriva. Dal Maghreb alla Spagna - con gli Indignados- fino in Inghilterra. In qualche modo anche in Italia, non violento ma calmo e deciso. Un po’ come aveva detto D’Azeglio, che nel 1847 scrive: “Crediamo che le soli e reali fondamenta d’un migliore ordinamento futuro [...] stia nel cercare intanto di ottener quello che è possibile, per trovarsi a portata dei mezzi de’ quali possiam disporre.”
Alla fine il vento di democrazia ha spirato anche in Italia. Non violento ma caldo, morbido e carico di voglia di partecipare. In primo luogo alle elezioni comunali e provinciali. Al di là dei risultati elettorali, che hanno visto in più casi l’incontro-scontro non tra parti politiche ma tra diverse impalcature culturali - quella del coraggioso cambiamento e quella della rigida paura, come a Milano - il dato vero e degno di rilievo è questo: ha vinto e si è affermato, dove è stato possibile, chi ha deciso di mettersi nelle mani dei cittadini. E questa è la più straordinaria delle rivoluzioni politiche in Italia, dove solamente in alcune tipologie d’elezione i cittadini possono scegliere il proprio candidato, la persona, un nome. Significativa a tal proposito è la dichiarazione del neo-sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, da piazza Duomo: “Vi chiedo una cosa, fatemi una promessa: non abbandonatemi mai.
Ha vinto ancor prima il popolo delle primarie della sinistra e tra gli altri si è nettamente affermato il Movimento Cinque Stelle (10% a Bologna), che della democrazia partecipativa fa il suo caposaldo in politica. Provate a chiedere a Mattia Calise - neo-consigliere di Milano per il Movimento fondato da Grillo - di definire il suo ruolo politico: vi risponderà che è una “periferica dei cittadini in Comune”.
Vince e vincerà chi meglio saprà uscire dal palazzo e costruire il futuro politico con la partecipazione di tutti i cittadini, sempre più convinti e desiderosi di capire e definirsi, al di fuori di “quell’atteggiamento di distanza che faceva sì che i poteri potessero comprare un voto a poco prezzo, o potessero condizionare con semplici manovre pubblicitarie il voto poco prima di andare alle urne”, come ha detto in questi giorni Roberto Saviano.
Ma il vento di democrazia non ha cessato di spirare il 30 maggio. Ha proseguito fino a giugno, in vista dei quattro referendum abrogativi del 12 e 13. E ancora una volta, il popolo ha deciso non solo di manifestare ma di manifestarsi, attraverso il più democratico dei voti, su quattro quesiti concernenti la gestione dell’acqua, il piano energetico nazionale e la giustizia. La risposta è stata chiara e potente, incontrovertibile. Ci siamo ricordati che la legge è uguale per tutti, che esistono valide e sicure alternative alla tecnologia morta e mortifera del nucleare e abbiamo deciso che possa essere ancora possibile scegliere a chi affidare la gestione dell’acqua del nostro paese: a società pubbliche, miste pubblico-private o private. Con i dati alla mano, ci siamo ricordati che a Parigi, ad esempio, la privatizzazione dell’acqua ha portato un aumento dei prezzi e all’inefficienza del servizio, mentre ora le cose vanno meglio da quando L’ “Eau” è tornata a essere “de Paris”, cioè pubblica.
Quattro voti civili, non partitici. La campagna vera è stata organizzata da persone, da ragazzi e ragazze che in veste di cittadini hanno informato i loro concittadini. Come a Castelbuono, in Sicilia (Pa), dove l’acqua è davvero un bene prezioso: il comitato locale per l’acqua pubblica era in piazza Margherita, il cuore del paese, e uno degli organizzatori, Emanuele Ferraro, mi disse che il loro obiettivo era “smuovere i cittadini, specie i più anziani, che vogliono che l’acqua rimanga pubblica ma non se la sentono di andare a votare”.
Nel paese, la percentuale di voto per il primo quesito sull’acqua è stata, alla fine, del 61,64%. I si il 97,39%.
Quattro leggi o parti di legge che sono state spazzate via dalla volontà popolare. La stessa volontà di cui erroneamente si incensa il presidente del Consiglio quando tenta di legittimare qualsiasi atto politico o uso del suo potere.
Il significato politico è consequenziale all’espressione del voto referendario, che altro non è stato che una verifica della sintonia tra esecutivo ed elettorato. Tutte e quattro le leggi erano state presentate da questo Governo e immancabilmente sono state bocciate. Nel voto appare chiara ancora una volta la volontà dei cittadini di richiedere un futuro costruito diversamente da quanto viene proposto dai palazzi. E quando un Governo non è più capace di rappresentare la maggioranza del paese, forse è il caso che si metta da parte.

venerdì 17 giugno 2011

Tutti in piedi

Ieri sera anche questo blog ha potuto trasmettere in diretta la trasmissione Tutti in piedi!, con Michele Santoro, Roberto Benigni, Elisa Anzaldo, Maurizio Crozza, Serena Dandini, Teresa De Sio, Antonio Ingroia, Max Paiella, Daniele Silvestri, Subsonica, Marco Travaglio, Vauro e molti altri.
Cliccando qui è possibile rivedere tutti i contenuti della serata.

mercoledì 1 giugno 2011

Nascita della mafia tra leggenda e documenti storici

La leggenda vuole che la mafia nasca molto lontano nello spazio e nel tempo. Nei primi anni del 1400 in Spagna venne fondata un’associazione criminale nota con il nome di Garduña. Era una vera e propria società segreta dedita alla rapina, al sequestro di persona e agli “omicidi su commissione”. Da Toledo, cuore della Penisola iberica, attorno al 1412 si staccò una piccola cellula costituita da tre fratelli uniti da legame di sangue. Erano i cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso, spinti alla fuga dopo che ebbero lavato nel sangue l’onore della sorella, violata da un signorotto locale. Giunsero a Favignana, al margine più occidentale della Sicilia, di fronte a Trapani.

Osso, legato particolarmente a San Giorgio, si fermò nell’isola e fondò la mafia. Carcagnosso, protetto da San Michele, si diresse in Calabria e fondò la ‘ndrangheta. Infine Mastrosso, devoto alla Vergine Maria, si spinse temerariamente in Campania e fondò la camorra. Tutti e tre impartirono regole ferree a queste nuove organizzazioni, e stabilirono i rispettivi codici segreti, cominciando a fare proselitismo e a reclutare nuovi affiliati. Fu il leggendario inizio, legato a storie che affondano le radici in profondi valori quali l’onore, il rispetto e la nobiltà d’animo.

La prima occasione storica in cui venne utilizzato il termine “mafia” ebbe luogo nel 1865, in forma scritta, con un rapporto del capo procuratore di Palermo Filippo Antonio Gualtiero. L’Italia era politicamente unificata da cinque anni (1) e fu questo il periodo in cui i ceti dirigenti cominciarono a ricevere notizie dettagliate riguardanti la società del Meridione. Furono redatti numerosi rapporti e inchieste che descrissero la psicologia sociale e la situazione economica delle regioni di un Sud arretrato e fondamentalmente ancora feudale. Particolarmente celebre fu un’inchiesta (2) del 1877 pubblicata da Leopoldo Franchetti (3) in collaborazione con Sidney Sonnino (4).

Il testo delinea la vera natura della mafia ai suoi albori.

Come il Franchetti constatò, il fenomeno criminale è originato da un preciso substrato culturale costituito da una diffusa mentalità che manca del concetto di una legge e di un’autorità che rappresenti e procuri il vantaggio comune (5). In altre parole la società Siciliana era basata su vincoli strettamente famigliari più che su vere leggi riconducibili a un’organizzazione politica. E’ accaduto a più di un rappresentante dell’autorità che rifiutava un favore richiestogli di sentirsi rispondere: “Lo faccia per amor mio”.


In sintesi, tutti i rapporti tra individui erano ricondotti a un interesse puramente personale che escludeva la società nel suo insieme. Quest’organismo sociale genera fedeltà e amicizia tra gli uguali e devozione da inferiore a superiore, ovvero dà luogo a rapporti clientelari patrono-cliente. Tale rapporto è ben definito da James C. Scott nel 1972 (6), in occasione di uno studio sul cambiamento politico nel Sud-est asiatico: “Può essere definito come un caso speciale di rapporto diadico (fra due persone) che implica un’amicizia largamente strumentale e in virtù della quale un individuo di uno status socioeconomico più elevato (patrono) usa la sua influenza e le sue risorse per procurare protezione e benefici, o entrambe le cose, a una persona di status inferiore (cliente); questi, da parte sua, ricambia offrendo al patrono appoggio generale e assistenza, ivi compresi servizi personali”.


Franchetti espose lo stesso concetto, con simili parole. In maniera più approfondita mise in risalto come i patroni di ogni clientela cercassero di arruolare ogni forza, fosse essa costituita da malfattori o da rappresentanti del potere giudiziario e politico. Meglio tutte e due. In questo modo era molto facile aiutare gli uni a sfuggire alle ricerche della giustizia e gli altri ad affermare il controllo sul territorio. Uno degli aspetti più paradossali delle mafie era e rimane tutt’oggi proprio quello di collaborare con categorie sociali spesso antitetiche tra loro. I metodi attraverso cui cominciarono a stipulare alleanze con le parti furono vari: il controllo e l’influenza sugli organi giudiziari comportava la conseguente affiliazione alla clientela del malfattore assolto o fatto evadere; la corruzione, l’inganno e l’intimidazione servivano a tessere rapporti con la politica e gli organi di giustizia.

Descrivendo propriamente il termine “mafia” scrisse così: quelle vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza aver nessun legame apparente, continuo e regolare, si trovano sempre unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico.

Franchetti analizzò anche le immediate conseguenze di tale fenomeno, sottolineando come un siffatto stato delle cose portasse all’immancabile espansione territoriale e numerica di queste entità. In altri termini le varie clientele si sfidarono in vere e proprie gare personali che portarono a grandi divisioni partitiche. Questo fenomeno accrebbe il desiderio e la volontà di controllo dei territori e dei Comuni locali. La mafia entrò nella politica amministrativa del luogo trasformando il patrimonio comunale in patrimonio personale e utilizzando le leggi, la cui esecuzione era affidata proprio alle autorità locali, come armi attraverso cui praticare vantaggi per se stessa.


Venne a crearsi una vera e propria scala sociale, all’interno della quale ciascuno occupava il rispettivo gradino. In basso, ancora una volta, finirono i contadini, esposti com’erano alle prepotenze di ognuno. Essi non possedevano ricchezze e l’unica improbabile difesa che possedevano era rappresentata dalle leggi. A tal proposito si riporta un esempio.

A un impiegato Piemontese addetto alla riscossione della tassa sul macinato capitò di giungere in Sicilia e di assistere all’omicidio di un uomo. Subito si precipitò a denunziare il fatto. Dopo pochi giorni le colpe vennero fatte ricadere direttamente su di lui e venne arrestato in veste d’imputato accusato di aver commesso l’omicidio. S’istruì contro di lui e furono trovate testimonianze a suo carico. Sul punto di essere condannato intervenne fortunatamente l’Autorità superiore che, avvertita per tempo, rimise sulla giusta strada il processo. Alla fine l’impiegato fu trasferito per sottrarlo al pericolo di essere assassinato. Il motivo era questo: in Italia denunciare un assassino veramente colpevole è infamia.


NOTE

  1. Ad eccezione di Roma e Veneto;
  2. L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Vallecchi, Firenze 1925, pagine 44-49;
  3. Leopoldo Franchetti (1847-1917) Politico italiano, economista, filantropo, studioso meridionalista e senatore del Regno d’Italia;
  4. Sidney Sonnino (1847-1922) Politico italiano, presidente del Consiglio dei ministri del Regno (1906 e 1910);
  5. In corsivo il testo riportato;
  6. James C. Scott, Natura e dinamica della politica clientelare nell’Asia sud-orientale, in Paul Ginsborg, Salviamo l’Italia, Giulio Einaudi Editori, Torino 2010, pagina 95;
Articolo pubblicato sull'annuario "I Quaderni del Cairoli" n°25 anno 2011.

martedì 31 maggio 2011

Varese al voto

Questa nota è stata pubblicata su Facebook il giorno 13 maggio 2011.


Non lo nascondo: vedere le anziane signore in centro a Varese che rifiutano i volantini del "Partito dell'amore" (citazione) mi ha strappato un sorriso, forse di speranza.

Tra due giorni cominciano le elezioni a Varese. Pur non abitandoci, spero che possano affermarsi due persone: Alexander Mayer, vent'anni, Sinistra Ecologia e Libertà, e la candidata nella lista del Movimento Cinque Stelle, Federica D'Elia, che va all'ultimo anno di istituto tecnico ITPA, diciannove anni. Con la speranza di giovane cambiamento. Mentre Umberto Bossi e Ignazio La Russa, passeggiando per Corso Matteotti, si scambiano battute da buontemponi, sorseggiando un caffè e una Coca-Cola ("Lui è un porcone", dice il primo al secondo, e giù le risate dei militanti) e Fontana, dal suo sito, sciorina con foga tutte le belle cose realizzate in questi anni, questi ragazzi si dannano per dire la loro, proporre idee, impastarsi le mani diprogetti, affermare: "Ci siamo, adesso proviamo noi". Valore aggiunto? L'inesperienza di chi si mette in gioco. Passato prossimo contro futuro semplice.

E' di Gandhi l'affermazione: "In democrazia nessun fatto di vita si sottrae alla politica". E allora guardateli, da capo a piedi. Osservate gli sguardi, gli atteggiamenti, i vestiti; Cogliete la differenza tra una cravatta e una kefiah. Ascoltate le loro affermazioni e leggete quello che scrivono su Facebook, e ditemi chi vi piacerebbe che progettasse il vostro prossimo futuro in

città.